Chissà quale sarà mai l’etimologia di questa parola, che si annuncia con uno scoppio –pe-, prosegue con un gancio appena percettibile –nt-, e si conclude in una nota dolce –ima-.
Qualunque sia la sua storia, pentima vuol dire scoglio, e dà nome a una parte di Monopoli per me finora sconosciuta.
Ci sono andata nel primo pomeriggio, saranno state le 14:00. Ho avuto la sensazione di trovarmi in una piazza, deserta, in cui un tempo forse si incontravano i signori colti per discutere, o al contrario i pescatori per vendere la loro merce. D’estate penso che la pietra bianca diventi abbacinante per il sole che attraversa la pentima. Oggi invece il cielo è quasi plumbeo, il vento muove minacciosamente le nuvole, specie una carica di pioggia che, per fortuna, tiene tutta per sé. E sul tracciato lungo e stretto, la pietra bianca, le ringhiere, gli scalini circolari attorno a piccoli e grandi piazzali, sono coperti come da un’ombra luminosa che mi fa pensare a una cartolina.
Dal centro della pentima, facendo attenzione a non calpestare la terra fresca, ancora nuda, priva di verde o d’altro colore che non sia, appunto, il color terra, basta guardare a destra, avanti e a sinistra per vedere tre diversi scenari.
A destra. Nel punto più vicino all’osservatore, i palazzi sono disposti su diversi gradini, quasi a voler affermare ora la loro altezza, ora la loro prominenza alla pentima, e di quella hanno il colore, il bianco. Ma basta guardare un po’ più in là per accorgersi di costruzioni irregolari nelle forme –squadrate, spigolose-, come nei colori contrastanti: giallo, blu, rosso che, arrivando alla punta estrema, soffocano quasi il candore delle prime abitazioni. Sarebbe bello sapere che colpo d’occhio daranno gli edifici che, prima o poi, verranno innalzati da quelle due gru e da quelle ruspe che occupano dello spazio per il momento libero. Il primo spazio che incontra il paesaggio che si staglia davanti.
Avanti. Blu, profondo, irrequieto, solcato da mille piccole increspature nervose, intense, si stende il mare. Ineffabile per la miriade di suggestioni che fa affiorare, inenarrabile per le infinite storie e leggende di cui si rende ogni volta protagonista mai uguale a se stesso. Una scaletta arrugginita sembra il prolungamento dello scoglio a cui è legata, come avvinta in un innesto così innaturale da sembrare l’unica destinazione che quella scala avesse potuto avere. Un appoggio solido, perché la discesa verso il mare sia dolce e sicura. Seguendo l’andamento della scogliera, a tratti popolata da uccelli bianchi che qualcuno, imprudentemente, chiama piccioni, ancora un’altra Monopoli si offre agli occhi a sinistra.
A sinistra. E’ la città vecchia, il cuore pulsante che ha dato linfa alla crescita del tutto intorno. Il bicolore della pietra segna nettamente l’età più antica e quella più vicina. La prima è color sabbia, è quella più prossima al mare. Di questo colore sono le mura del castello, per secoli protezione della città dal nemico proveniente dal mare. Il secondo colore è ancora una volta il bianco, quello delle case moderne, delle facciate dietro cui si celano altri tesori. E in delicato gioco cromatico, spunta una torre, o meglio, un campanile che sovrasta questa parte della città e si rivolge all’orizzonte, al mare.
Al centro sempre la pentima: forte come la tradizione, rispettosa come l’austerità dei tempi passati, dolce come la serenità che si respira sostando sui suoi gradini.