martedì 14 dicembre 2010

10 cose che ho fatto ma non posso credere di aver fatto

Tralasciando le esperienze intime in cui, bene o male, ci sono sempre aneddoti strani e inconfessabili, penso che le 10 cose che ho fatto ma che non posso credere di aver fatto siano le seguenti:
  1. Salasso a scuola mentre mia zia mi guardava e io facevo l’indifferente;
  2. rubare un anellino da una bancarella;
  3. essermi laureate 3 più 2 esattamente in 5 anni;
  4. aver baciato uno sconosciuto mai più rivisto;
  5. fatto una scorreggina su richiesta per vincere una scommessa;
  6. per quieto vivere aver acconsentito a delle decisioni sbagliate;
  7. fatto 40 km a piedi, Mattinata – Vieste, attraversando sentieri inutilizzati da decenni;
  8. aver dormito nel sacco a pelo, sulla cima di un monte, senza la tenda e in compagnia di tanti schifosissimi insetti;
  9. essermi fidata delle persone sbagliate;
  10. aver rivelato di aver fatto una scorreggina su richiesta per vincere una scommessa.




La felicità dorme

Ascoltare Benvegnù mentre aspetto che il treno parta per raggiungere la mia fermata, che non è la mia meta. Ieri, come oggi, come domani, in un ripetersi monotono di ritmi, di freddi annunci, di sali e scendi di vita fremente di giungere a destinazione puntando un’altra meta. Un viaggio quotidiano che, a ben vedere, è un semplice trasporto merci, lo spostamento di un corpo, di tanti corpi, da un posto all’altro. Trasferirsi giorno dopo giorno senza più assaporare il tragitto, cogliere i colori della natura che si trasforma davanti ai nostri occhi ignara della mia, della nostra indifferenza.

Leggere un buon libro, ascoltare ottima musica. Il viaggio in treno per lavoro diventa il momento, forse purtroppo l’unico della giornata, in cui è possibile ritagliarsi una spazio personale, dedicarsi alle proprie passioni o semplicemente riuscire a cogliere i piccoli piaceri della lettura e dell’ascolto. Circa una mezz’oretta per fermare un pensiero su un’agendina, abbozzare un racconto su un notebook, lasciarsi trasportare dalle note di una musica amata, rassicurante, profonda, ricca di stimoli per riflessioni su di me, su di noi, sul mondo.

Piaceri a breve termine, a tempo determinato. La bolla di sapone esplode allo scadere della mezz’ora mattutina e non torna nella mezz’ora della sera. Il viaggio verso casa è scandito da discorsi, monotoni e sterili, su chi condivide con noi la giornata; da sbadigli stanchi e forse rassegnati. Anzi, troppo spesso. E così passano i giorni, le settimane, i mesi, gli anni. E solo la distanza riesce a far emergere i nostri personali progressi, i cambiamenti. Il mio viaggio verso il luogo di lavoro non è la mia meta. I progressi e la coscienza che pian piano acquisisco di me stessa sono dei piccoli grandi tesori che, presto o tardi, diventeranno dei lego, dei mattoncini colorati sui quali si baserà la mia vera fermata.

Sarà una fermata diversa da quelle che incontro adesso. Sarà una meta calda, accogliente, mia. Guarderò le pareti solide e colorate e penserò alle mie idee, ogni particolare parlerà della forza di quei progetti che ora si affacciano timidamente in me, ma che un giorno esploderanno, magari anche grazie alla sinergia con un’altra mente. Brillante, spiazzante, unica. E insieme all’alba nascerà anche il primo sorriso della giornata, guarderò il pouf nero e penserò che sta meglio accanto al tavolino trasparente invece che vicino alla scrivania rossa. Ogni mio tenero pensiero si materializzerà in un abbraccio e via! L’energia chiama energia, come la creatività cerca stimoli. E troverò anche quelli, nelle discussioni ridenti tra un bicchiere di vino e l’altro, nella scoperta di una nuova ricetta che entusiasmerà il palato dell’intera tavolata. Poi le avventure con i miei piccoli cuccioli mi faranno guardare il mondo da nuove prospettive. Sul tavolo ci sarà il mio pc, i miei mille appunti accanto alle penne e ai segna libri tutti perfettamente in ordine. Allora deciderò di terminare un lavoro sul divano, un altro in veranda e l’altro ancora tra le sue braccia che non mi hanno mai abbandonata, anche quando hanno allentato la presa sono sempre state lì. E penserò che tutta la ricchezza la avrò avuta anche grazie alle mie giornate speedy, che in fondo ne sarà valsa la pena.

Sono arrivata, devo prepararmi per scendere dall’espresso partito da Torino Porta Nuova, diretto a Lecce. Tra le fermate, la terza è la mia: Monopoli.

lunedì 13 dicembre 2010

Vuoto spinto

Una giornata grigia di mezza stagione, senza sole e senza ombre. La pioggia sarebbe una liberazione: un bel temporale, uno scroscio deciso per alleggerire le nuvole. Invece, niente: il cielo rimane uniformemente cupo, in stasi, un immenso tetto di pietra il cui peso ricade tutto sull’anima.
Il tempo sembra non esistere più e ogni gesto rallentato e ripetuto all’infinito. I colori non esistono, tutto è uniformemente grigio, tiepido, insipido. L’aria stessa è ferma, tanto da solidificare e diventare cemento fin dentro i polmoni.
Il silenzio fino alle ossa, assoluto, alienante, tale da zittire anche la propria voce, con i pensieri dispersi nel vuoto, senza che nessuno possa ascoltarli. Anche ricordi sono troppo distanti per poter regalare un po’ di calore e vita a questo sterminato deserto.
Tutto intorno solo fredde statue dalle sembianze umane, senza volto, tutte girate di spalle e con lo sguardo rivolto altrove, lontano, ognuna per la sua strada.
Perso, senza né una strada da seguire né una meta da raggiungere. Solo la speranza, fiamma perenne nel cuore, concede il calore e la forza necessaria ad attendere il ritorno del sole.

Leo

Sulla “pentima”. Fotografia semiseria di un litorale.

Arrivo su questo breve marciapiede litorale conosciuto, in maniera poco originale, come “pentima” dieci minuti prima delle 16,00.
Mentre guardo all’orizzonte cercando di pianificare descrizioni e altre visioni, sopraggiunge un mio amico e collega sulla sua straordinaria bicicletta antichizzata. Scambio di banali saluti e di sincera sorpresa per l’incontro. Chiariti i motivi della sincrona escursione si raccomanda con me di salutargli Dada, comune amica e docente.
Rilancio lo sguardo in navigazione. All’orizzonte un cielo grigio tendente al celeste quasi si confonde con il mare celeste tendente al grigio. Riesco, nonostante la miopia e la leggera foschia, a distinguere le piccole sagome di sedici barche e di una canoa con due vogatori a bordo.
Abbasso ancora gli occhi per ancorarli alla terra ferma. Nel punto in cui mi trovo, la scogliera mi appare perpendicolare e il suo perimetro disegna una sorta di enorme arcata dentale di squalo.
Su uno di questi denti giace un pescatore ben coperto e ben nutrito alle prese con due canne da pesca che, ad intervalli quasi regolari, riposiziona su una sorta di treppiede metallico. Nelle pause di lavoro osserva i galleggianti delle lenze e fuma.
Sul dente a me più vicino un manto di erbacce accoglie qualche cartaccia e pochi altri rifiuti estivi. Troppo pochi, qualche onda grossa avrà già fatto da spazzino. Volgendo lo sguardo alla mia destra completo la panoramica di 180° iniziata all’orizzonte. Finalmente sono di fronte all’origine dell’appellativo. Conto, infatti, nove enormi “pentime” disposte l’una di fianco all’altra a formare una robusta barriera a difesa (e quasi a riconoscenza) di due piccole spiagge da cui cento, mille, un milione di anni fa furono forse partorite. Le due piccole aree costiere sono delimitate a nord e a sud da scogliere e ad ovest dal muro artificiale che culmina sotto il livello stradale.
La visione d’insieme ricorda, in maniera molto meno suggestiva, quella di un teatro romano diviso in due settori. Infatti, una “pentima” (pigra o semplicemente ritardataria) segna il confine fra le due spiagge, mentre una piccola palma sbuca, coraggiosamente, dalla sua base.
Sulla battigia della prima si mescolano, incestuosamente, ciottoli di pietra bianco sporco e tavolette di polistirolo bianco latte. Comprendo l’utilità del cartello che sancisce il divieto di balneazione a partire dall’11/08/1995. Intuisco che fino a quella data era stato utile anche il piccolo percorso a scivolo che congiunge il livello stradale alla battigia.
La seconda riva, invece, offre una varietà di terreni ben più composita: alghe, vicino al mare, e poi sabbia grossa (o, forse, breccia per edilizia), terra e ancora ciottoli.
Il limite meridionale è costituito da un muro naturale di scoglio che ospita una grotta con pareti forse così rettilinee da sembrare artificiali. La parete marina si ricongiunge ad un’altra scogliera più omogenea e compatta tramite una lingua rocciosa così irregolare da sembrare naturale.
Mi sposto sull’estremità orientale del lungomare. Una notevole intuizione mi fa pensare che sono già più vicino all’Albania.
Il limite estremo della terraferma è costituito da una piccola penisola assai frastagliata sia in altezza che in estensione e questa struttura genera piccole conche alcune colme come piccole pozzanghere, altre asciutte come piccoli crateri.
Mi distrae il passaggio di un’anziana signora in tuta ginnica con un cagnolino al guinzaglio. Scorgo nei due volti una somiglianza inquietante. Passano un paio di podisti con gli occhi e le mascelle stravolte dalla stanchezza.
Il pescatore, che adesso è alle mie spalle, lancia la lenza per l’ennesima volta. Me lo rivela il rumore di frustata che produce la canna. Ragazzi incoscienti ma coraggiosi mi sfilano di lato e davanti a bordo dei loro skateboard, sfidando le irregolarità del marciapiede, la forza di gravità e la mia pazienza.
Tutta questa umanità, però, rischia di offuscare la mia “fotografia”. Mi allontano allora, dirigendomi verso nord (sono sicuramente più vicino Venezia…).
Scorgo all’orizzonte un’enorme sagoma bianca, forse una nave da crociera, ma mi piace immaginare che sia la punta di un iceberg.
Sulla punta del molo, il faro del porto emette il suo solito raggio verde, mentre i sei lampioni che riesco a vedere illuminano di luce gialla la banchina ed il mare antistante. Le vecchie mura della città vecchia si sovrappongono alla restante parte del lungo braccio di cemento e impediscono di scorgere il porto.
Un pescatore bambino lancia la sua lenza mentre una canoa con cinque vogatori fa rientro a riva. Un’altra canoa, con due atleti, la segue a stento. Più a largo, una barchetta a vela discreta ed elegante sembra muoversi col passo di una petroliera. La scogliera, da questo lato, mi sembra più sporca: lattine, fazzolettini, mozziconi e mozziconi. Il mare, su questo versante, non è così efficiente come spazzino.
Due ultime annotazioni: i lati più riparati e, in generale, le punte degli scogli mantengono una colorazione sempre più chiara rispetto alle superfici più esposte ai flutti. In questa città molti vanno in canoa, alcuni sugli skateboard e pochi vanno a pesca.
La sua vocazione marinara è ancora solida.

di Giangi

Nessuna gioia è uguale ad un'altra

Era domenica 4 Agosto e Giulia, la donna-cannone del paese, volteggiò tre volte sul sagrato della piccola chiesa, senza piangere. Corse verso casa con pesanti salti di danza ma senza fatica, facendosi strattonare dal vento i lunghi capelli crespi e radi. Senza sudore spalancò la porta d’ingresso per saltare fra le braccia della nonna e urlare quello che aveva appena sentito per la prima volta: “Giulia, sei bellissima!”.

Giangi

Il grande freddo

Mi capita di svegliarmi e di non sapere dove sono.
La casa è bianca e nuova, quasi senza mobili. Le persiane verdi completamente chiuse, gli infissi immacolati.
Deve essere giorno perchè i raggi di luce filtrano comunque.
Sento fuori un mormorio incessante e ricordo.
Se guardo il polso non vedo ore. Non porto l'orologio da tantissimi anni.
Mi guardo su un divano completamente vestita e ranicchiata in cose diverse tipo giacche, sciarpe, buste, giornali, indumenti non miei, copri divano, borse.
Ho le gambe di pietra e riesco a muovermi con una fatica enorme.
Apro la bocca per sibilare un oh. Ma mi esce una specie di niente mischiato a fischio.
Nel resto della casa silenzio.
Ieri è stato il primo giorno di freddo.
Sono scesa giù in centro insieme ai miei per andare a fare una visita di cortesia poi ho cominciato a sentirmi male .
Cioè, la tachicardia.
Ho cominciato a sentirmi male quando siamo arrivati a casa di Alberto e Bruna neo genitori della bionda Ginevra nel bianco bancario palazzo di via dei Barnabei.
Casa bellissima, tutta bianca con degli schiaffoni neri dell'ikea, le lampade artemide, cose provvisorie e lussuose, pile e pile di riviste dai suggestivi nomi "The Lodge", "Luxury Estate" e "The Build and The Finance".
Coralmente lamentano di non riuscire a trovare una cameriera a tempo pieno e una tata adatta. Tali presupposti giustificano che per farci un campari sia necessario telefonare al bar dell’angolo affinchè un ragazzo rachitico dopo 10 minuti venga a portarci questi palliativi. Io comincio ad avere delle autentiche paturnie che faccio fatica a stare seduta.
Se potessi stare nella testa di Alberto anche solo per un minuto, capirei gli ingranaggi di questa milanesità per noi così esotica. Mi stupisce sempre ogni volta che lo vedo con le sue camicie di sartoria e i suoi orologi svizzeri, per il fatto che non esista persona al mondo che meglio riesca ad immaginare piangere, perdere, farsi il bidet.
Io e lui, poi dopo che finiscono i drink portatici a domicilio, decidiamo di farcene uno handmade (come piace dire a lui, tesoro ti preparo un negroni handmade!). Chiedo il permesso a mio padre che risponde senza parlare ma alzando il suo adorabile sopracciglio sinistro, solo metà per la ragazza!
Alberto lo carica a sfacimento come piace a lui e quello che doveva essere un mezzo negroni, diventa un intero violento zippato negroni post pomeridiano.
Io capisco che sto male. La cosa che più acuisce questo disagio è il non poter parlare liberamente. Considerata la formalità del tutto, intendo. Vorrei invece fare delle domande precise ai presenti (cosa vi preoccupa a parte questa nuova privilegiata bionda vita che avete donato all’universo/mondo? Cosa fa di voi gente dalla fronte talmente aggrottata? Siete anche voi angosciati come me da questo anno 2007 in cui novembre ci ha portato grandine e rogna?).
Bruna è una ragazza che somiglia ad un pozzo apparentemente secco ma oscuro, profondo,  misterioso circa la fine. Ha capelli che sono alghe nere, ha un'andalusa faccia del mercoledì delle ceneri e muove stizzosamente nell’aria le sue saracene dita appesantite da carati e carati di impegno coniugale. Guardo la curva pericolosa del suo piede svettante su tacchi a spillo e mi domando se ha mai posseduto un paio di converse all stars, Bruna.
Ieri ho capito che da sola non ce la posso fare. Cioè me lo ha comunicato il mio Cordiale Amico per la Vita.
Nonostante gli sforzi per condurre una vita normale, tengo una cosa insidiosa dentro che gradualmente diventa più grossa, dura e filamentosa (sembra il didentro delle ossa). Mi snatura e mi fa fatica. 
Cordiale Amico per la Vita, mi dice non ti riconosco più, sei regredita, ha paura di tutto, non ti diverti, non senti niente, dimmi cosa senti, dimmi cosa vedi: se ti tocco qui, se ti infilo uno spillo qui, se ti verso una tazza di minestra bollente sul vestito. Io non sento niente. E lo vedo muoversi e parlare come da un'altra nazione, come in una videoconferenza.
Non sento le mani, il petto, le ginocchia, l'odore, l'umido, il tempo, il presente. Ho la sindrome di Micol Finzi Contini.
Il sabato sera facciamo delle cene normali. Comprano chili e chili di carne da un pastore qui vicino a Sanvensan. La scelgono e se la fanno cucinare sui carboni (io e Cordiale Amico per la Vita intanto saliamo verso Sanvensan in auto parlando di aldo moro, delle strategie involontarie applicate da una giovane promessa e di quello che sarebbe accaduto oggi).
Ceniamo tutti insieme parlandoci addosso intorno al tavolo, beviamo tutto e gli avanzi di tutto, Uno si trasferisce sul divano a smaltire la sbronza, si toglie le scarpe e i maglioni ed sta diverse ore con una mano nelle mutande a non esistere.
Noi altri senza muoverci dalla postazione fumiamo diverse decine di trombe, poi arrivano altri due chissà da dove e la padrona di casa è costretta ad alzarsi per aprire la porta. Hanno portato i cornetti, altro fumo e delle droghe che io non consumo.
Poi ad un tratto è mattina e Sanvensan è lontana perché non è più collina ma fuori si sente mormorare il mare oltre la selva di ulivi. Il mare fa paura e non l'avevo mai sentito così roco, così lamentoso, sofferente selvaggio in una conversazione perpetua incessante, gelida, nera. Come quando per la prima volta vedi una persona familiare sbroccare, cadere, perdere, incattivirsi.
Cordiale Amico per la Vita dice questa volta da sola non ci riesci secondo me. Ti devi fare aiutare.
Io non so da chi. Non so cosa dire. Dentro di me ho una confusione pechinese. Non mi si muove un muscolo della faccia.
La confusione mi riga la faccia svariate sere mentre cerco di addormentarmi. Attendendo la resa dolciastra della medicina come una barca che mi porti da sponda a sponda.
Cordiale Amico per la Vita non ha dormito con me, ha dormito in un'altra stanza ma mi ha messo vicino al divano dei giornali se caso mai avessi avuto freddo (proprio come quando andiamo al cinema all'arena e si alza il maestrale).
Mi ha dato una notizia brutta e una bella. Come spesso fa.
Sento che anche lui, nell’altra stanza prova a soffiare delle parole e a muovere le gambe.
Gli sorrido approfittando della sua assenza e gli sono riconoscente per tutti i suoi comportamenti omissivi.
Per lo specchio che è di me. Quando continua a dirmi, da sola non ce la puoi fare senza tuttavia mai alzare la mano per presentare proposte assurde.

Valentina

LA PENTIMA

Era parecchio tempo che non passavo da qui, da questo angolo Monopolitano fatto di scogli, cemento, ferro, mare e sentimenti.
L’aria è di un freddo pungente, quel tanto che basta a farti desiderare l’abbraccio di qualcuno, ma non abbastanza da farti rimpiangere il tepore di un camino.
Il mare è calmo e scuro come il cielo che in esso si riflette, confluendo all’orizzonte come fossero un’unica immensa distesa. Manca solo la luna a completare quello che in altre situazioni avrei definito un panorama romantico.
A parte me e un gatto piuttosto schivo, non c’è nessun altro nei paraggi. Il nero del mare sfuma via via verso il grigio di roccia e cemento dove poggiano i miei piedi, grigiore reso ancora più freddo dalle luci artificiali. Il colore caldo delle mura del paese vecchio è distante, separato da una scura insenatura, la stessa caletta dove tante volte mi sono bagnato, gelandomi i piedi per salire o scendere dalla barca, quando ancora vogavo.
Un vuoto, una mancanza imperdonabile che stona con i miei ricordi: il ponticello diroccato di pietra e legno che si allungava verso il mare non esiste più, quasi come se non ci fosse mai stato. Probabilmente era troppo pericoloso, sicuramente inutile, di fatto rendeva questo luogo un po’ più interessante e, per chi aveva il coraggio di scavalcare le recinzioni in ferro che delimitano il marciapiede, in alcune occasioni anche intimo.
Questo luogo mi ha visto passeggiare, correre, mangiare, chiacchierare, baciare... eppure ora lo sento estraneo, quasi ostile. Sui muri centinaia di scritte più o meno sbiadite, ognuna con qualcosa da raccontare e tra queste, da qualche parte, quella di un ragazzo che non esiste più, dedicata a una ragazza che forse non è mai esistita.

Leo

HAI PRESENTE QUEL FILM?

L’ho rivisto da poco quel film, anzi, tutti e due, quello e il seguito. Ci sono questi quattro scienziati un po’ eccentrici… anzi no, tre, il quarto si unisce dopo al gruppo, e non è uno scienziato… insomma, inizia che sono stati chiamati in una biblioteca dove hanno il primo incontro con questa entità e, dopo un misero tentativo di approccio, corrono via terrorizzati in strada.
Poi vengono sbattuti fuori dall’università dove lavoravano e il più intraprendente dei tre decide che devono mettersi in proprio, e per farlo ipotecano la casa di uno di loro, lo stesso che era stato mandato la prima volta a parlare con l’entità… e sarà sempre così per lui, con quello più intraprendente che fa il gradasso a sue spese, come in una delle scene finali dove lo manda a trattare col cattivone di turno.
Comprano questa casa fatiscente, una ex caserma dei pompieri, e con i pochi soldi che restano un macchinone vecchissimo che sempre lui, quello un po’ bistrattato, rimette a posto. Nel frattempo il terzo costruisce delle attrezzature fatte apposta per il loro lavoro… all’inizio però nessuno li chiama, fatta eccezione per una donna che ha visto delle cose strane nel suo frigorifero, ma che non viene presa troppo sul serio da quello più intraprendente, il quale però la accompagna a casa con l’intenzione di provarci e non trovando nulla se non le uova fritte sul tavolo.
La prima chiamata importante arriva da un albergo di lusso, dove riescono finalmente a prendere la loro prima “preda” facendo però un sacco di danni con i loro attrezzi… nonostante ciò da quel punto in poi diventano famosissimi e vengono chiamati un po’ da per tutto. Mentre si vedono loro che corrono da un posto all’altro e che escono sui giornali, si sente per la prima volta quella colonna sonora famosissima.
Gli eventi sovrannaturali aumentano via via di più e si scopre che il palazzo dove abita la donna che si era rivolta a loro all’inizio era stato costruito in modo da evocare un demone… o qualcosa del genere. A un certo punto la situazione sella città si aggrava improvvisamente e loro sono incolpati e incarcerati prima e, poi, tirati fuori dal sindaco per risolvere il problema. Nel frattempo la donna dell’inizio e un suo vicino sono stati posseduti da due cani mostruosi che dovevano essere le chiavi per richiamare il demone.
Alla fine la squadra al completo si ritrova al palazzo incriminato, con una folla enorme che li incita… arrivano a piedi all’ultimo piano, perché il grattacielo stava crollando, e si ritrovano faccia a faccia con questo antico dio sumero. Qui viene mandato il solito a trattare con questa creatura, la quale ignora ciò che gli stava dicendo e gli chiede “sei tu un dio?” e lui, un po’ perplesso, “no”, e subito dopo li spazza via… al che il quarto, quello nero, gli dice “se qualcuno ti chiede se sei un dio, tu devi rispondergli si!”. Alla fine risolvono tutto incrociando i flussi contro il portale che si era aperto, provocando una grandissima esplosione dalla quale non si sa come escono illesi… ah si, poi c’era anche il gigante di mushmellow, che sembra l’omino della michelin vestito da marinaio… certo che in lingua originale la frase/motto “chi chiamerai?” suona meglio.

Leo

lunedì 6 dicembre 2010

L’ avventura di Giu.Pez

A Giu.Pez proprio non va giù, deve necessariamente riuscire ad arrivare sino alla sera, col morale alle stelle e dormire dove finalmente la sogna. Con zero problemi si alza dal letto e dritto si dirige a fare ginnastica, temprare il carattere che lo aiuta a superare le barriere che lo ostacolano. Dopo la fatica una sana colazione con the e biscotti mentre segue dal televideo le ultime notizie di calcio: “ cavolo, il giocatore  che ho al fantacalcio si è infortunato. Porca miseria”. A rincuorarlo c’è sia la mamma, c'e l’acqua che lo sveglia togliendo le ultime scaglie di sonno. Pronto, vestito e col New York in testa va al lavoro, ma la strada è lunga, a volte troppo. Ma quante persone da salutare, persone che conosce ma sono da evitare e Giu.Pez è al lavoro. Solite cose da fare, il direttore che sclera e le noie e le lamentele lo rendono nervoso, “ ma tanto arriverà stasera” si dice. Stessa cosa nel pomeriggio, subito dopo aver ricaricato le pile, ma Giu.Pez c’è la deve fare, non si deve demoralizzare e col sorriso affronta tutti con la sua semplicità. Arrivano le 19.00- 19.30. E’ finita, ma le sorpresa è sempre dietro l’angolo che sia un amico che non vede da molto che notizie anche brutte, ma è finita. A casa i sorrisi dei genitori e gli occhi gioiosi del fratello lo fanno sentire sempre contento, soprattutto dopo il lavoro. Finalmente si mangia, un bel film magari comico e Giu.Pez alla fine va a dormire, dove dopo aver ascoltato un buon cd, finalmente la sogna. E mentalmente si prepara al giorno dopo comprese le sorprese che la vita gli porrà.

Giuseppe Pezzati

LA PENTIMA

So benissimo che fino alla prossima lezione non avrò voglia di andarci…oppure
me ne dimenticherò, come effettivamente è successo l’altra settimana.
Ammissione di colpa. Chissà cos’è peggio tra la pigrizia e la distrazione.
Tornando all’argomento, ho trovato un buon compromesso. Quel posto verrà
descritto, ma facendo due passi nella memoria vicina e lontana. Ci sono stato
un bel po’ di volte, qualcosa pescherò…lì  c’è pure il mare!

Sono circa le sei e mezza, sette di sera. Una giornata di metà maggio. Il buio
della notte è ancora lontano. L’aria è piacevolmente fresca, in cielo solo
qualche nuvola. Poco traffico, stranamente. Qualche barca in mare, in
lontananza, davanti a me. Questa scelta del momento ha un motivo. Lo so
soltanto io. Anzi, forse anche qualcun altro.

Mi muovo. Mi sto lasciando alle spalle il Bar Kambusa. Luogo d’incontro
conosciutissimo, irrinunciabile. Un bar semplice, fatto solo per bere, parlare,
ascoltare, ogni giorno dell’anno. Birra, cocktail, cicchetti, sigarette,
musica, bagni affollati, vomito nelle strade vicine, rare risse, casino, gente
qualsiasi, fighetti, alternativi, pseudointellettuali, ultras in branco (mai
visto uno da solo!), femmes fatales, trans, ragazzine vestite in modi che a
volte ti fanno pensare in dialetto “se quella era figlia a me!”. Ma è un
pensiero che dura poco, non ho figlie io, spesso tendo a godermi lo
spettacolo.

Mi muovo. Alla mia sinistra un parcheggio pieno d’auto in ordine sparso e poi
uno degli ingressi al Centro Storico, le mura sul mare. Davanti a me lo
strapiombo (fortunatamente protetto da una lunga ringhiera) sotto al quale c’è
la spiaggia Porta Vecchia (dal nome dell’ingresso di prima), ormai quasi
scomparsa, una sottile lingua di sabbia quasi completamente erosa dal mare, che
quando è molto agitato la copre completamente. Alla mia destra tabelloni
pubblicitari, una fontana e l’ingresso di una scuola.

Ora mi sto dirigendo verso la Pentima vera e propria, verso destra. La strada
scende un po’,  fino a un livello comunque molto più alto della spiaggia, poi
risale dolcemente. Per tutta la passeggiata avrò alla mia destra edifici
scolastici, alla mia sinistra una lunghissima balconata sul mare.

Il mare. Per chi cresce in una città col mare, è una presenza essenziale.
Almeno succede a me. Spesso mi piace guardarlo dalla finestra, da qualche
centinaio di metri. E se torno da un viaggio è una delle prime cose che guardo,
il mare di queste parti che mi fa subito sentire a casa. Forse  succede a tutti
con i posti che si ama e dove si vive, che sia mare montagna città deserto,
chissà. Ma il mare… Quando ti avvicini e lo guardi bene, sembra una persona
infinita ma non ingombrante. Ti ci puoi confrontare, spesso il suo stato d’
animo è opposto al tuo, altre volte sembra assecondarti. Può essere calmo e
placido, leggermente mosso e allegro, un po’ increspato e gagliardo,
decisamente agitato o incazzato nero con la schiuma che ti arriva qui. Qui
sulla pentima. Stavo divagando, eccomi tornato qui sul lungomare. Ma stasera
niente schiuma, tutto è calmo, forse io meno.

La Pentima è tutta fatta in quella chianca chiara molto diffusa da queste
parti. Un lungo viale di pietra che fiancheggia il mare. Qua e là qualche
aiuola spelacchiata, delle panchine in legno da cui mancano delle assi,
rendendo difficile poggiare la schiena o addirittura sedersi. Una balaustra
metallica corre lungo tutto il lato esterno, con delle interruzioni da cui è
possibile scendere verso il mare attraverso delle scale. Si tratta di un
versante pieno di scogli e rocce che spuntano qua e là, di forme e dimensioni
differenti, che fanno da cornice a tutta la pentima; essa stessa non è che una
lunghissima roccia ricoperta e trasformata in un lungomare.

All’inizio della mia passeggiata, alla mia sinistra, distaccato di una
quindicina di metri dalla terraferma, c’è il famoso isolotto, uno scoglio che
avevano ricoperto con una piattaforma in legno e collegato alla Pentima  con un
ponte anch’esso in legno. Credo di esserci anche salito tanti anni fa.
Purtroppo non ha resistito alle prime mareggiate più violente. Di fronte a
questa ottava meraviglia, dal lato della scuola, ci sono a far da pubblico un
furgoncino da “paninaro” e una postazione dei bagni pubblici…

Continuo a camminare. C’è qualche coppietta qua e là, in piedi o seduta,
qualcuno di ogni età che passeggia o va in bici, poche famiglie, di tanto in
tanto ragazzini sfrecciano in scooter o abbozzano semiacrobazie in skateboard.
Se cadono mi faccio due risate. Che bastardo!

Questo tratto iniziale è abbastanza spazioso e improvvisamente mi ricordo un
palco montato anni fa, gruppi giovanili che si esibiscono. Si, la Festa dell’
Unità! La si organizzava qui ogni estate, prima di spostarla nello scenario
bellissimo del Lungomare del Castello, prima di smettere completamente di
farla! Tre, quattro giorni di dibattiti, musica, gastronomia, volontariato.
Cambiare il mondo sembrava un po’ più facile.

Sto divagando, continuo a camminare. Sono alla svolta del piccolo anfiteatro.
Va detto che la Pentima, seguendo il disegno della costa, ha la forma di un
arco molto irregolare, forse una specie di boomerang storto. Nell’angolo di
congiunzione di questo boomerang, che sporge verso il mare,  è stato costruito
una specie di piccolo anfiteatro, qualche metro di diametro, giusto tre o
quattro gradini. Mi ricordo qualche serata tra amici, qui seduti a parlare e
ridere.
In questo punto il viale piega leggermente a destra e prosegue abbastanza
dritto verso la fine. Faccio caso solo ora ai lampioni neri in ferro, sono
accesi, la sera sta prendendo forma. Non è male l’impressione che danno con la
loro illuminazione. Certo sarebbe molto meglio de fossero ancora integri. In
cima hanno soltanto le lampadine, un tempo ricoperte di sfere bianche. Le hanno
rotte tutte. Si, proprio così, tempo fa qualche banda di teppistelli ha rotto
le palle…

In questo viale, sulla destra, ci sono tre o quattro delle famose panche. Una
di queste la conosco bene. La panca dei primi appuntamenti con lei. C’erano due
ottiche diverse, se arrivavo prima io (caso raro), la vedevo spuntare dall’
angolo dell’anfiteatro e avvicinarsi sempre più. Altrimenti, di solito,
svoltavo a quell’angolo e la vedevo lì ad aspettare. Bella. Arrivavo lì. Ciao.
Un bacio. Seduti accanto. Una sera insieme.
Una volta, ad aspettarla, mi faceva compagnia una rosa, affianco a me. Una
piccolezza da farsi perdonare. Risultato ottenuto. Donne. Feline e furiose, poi
basta un niente. Lama calda nel burro, neve al sole, un foglio di carta gettato
nel fuoco.

Sto ancora divagando, stavolta troppo. E adesso fa quasi freddo, è quasi buio,
non c’è nessun altro qui intorno, a parte un cane randagio una ventina di metri
più avanti. Continuo a camminare.

Il viale prosegue dritto. C’è un segnale di divieto di balneazione. Da quanto
tempo?

Il viale è finito. A destra è finito l’edificio scolastico. A sinistra, in
basso c’è una spiaggetta, non bellissima, non pulitissima. In alto la strada.
Prima c’era una fila di pini a costeggiarla, era un punto fresco e ombreggiato.
Dicevano che quegli alberi proteggevano anche dal grecale. Ora hanno estirpato
tutto, le radici stavano rovinando marciapiede e strada. Non c’è gara, tra
albero e asfalto.

Al di là della strada c’è un altro bar, il Piazza di Spagna. Un tempo il
Kambusa era qui e mi piaceva di più. Strano, comunque la si percorra la Pentima
inizia e finisce con un punto di ritrovo. Anche qui non è male, rispetto all’
altro posto è un po’ più tranquillo, più classico, meno variegato, meno
notturno. Spesso ci si sposta da un bar all’altro nella stessa serata, ma non
si va dalla Pentima, si preferisce la strada. Più breve, più comoda, più
riparata dal vento, ci si mette la metà del tempo. Si cammina il meno
possibile. A me piace molto camminare con calma. Se si guadagna tempo, forse ci
si perde molto di più. Chi lo sa. Probabilmente non è poi così amato questo
lungomare. Forse anch’io non mi sono divertito così tanto, forse perché ero
solo o non ho altro che mi leghi ora a questo posto. Chi lo sa.

Credo che gli altri mi aspettino al Kambusa  dopo questo giro solitario. Mi
hanno già squillato. Scelgo un tragitto. Vado dalla strada, ci metterò meno
tempo.

Chissà che ora è.


Francesco Girolamo

sabato 4 dicembre 2010

Le mie giornate speedy


06:40: La sveglia con le ruote di gomma comincia a trillare, a lampeggiare e io devo essere più veloce di lei, fermarla prima che si butti giù dal comodino e corra ovunque nella stanza delle altre cinque che beate loro dormono.
06:45-07:00: Latte caldo scaldato in uno scaldino di una delle mie coinquiline, l’aroma del caffè che è lì a dirmi “forza M.G., anche oggi ti do la carica, bevimi tutto!”, le fette biscottate con la marmellata della mamma affondano nella tazza prima, nella mia pancia poi, e via di corsa alla tappa successiva.
07:00-07:15 c.ca: In bagno. Minuti tutti per me.
Apro la porta, attraverso il corridoio, quasi inciampo nello stendino, investo la prima che riemerge dal sonno e via in camera a capire quale potrebbe essere l’abbigliamento migliore per affrontare l’ennesima giornata fuori casa. Borsa strapiena, busta con il pranzo, abbonamento, documenti.
07:45: Devo correre per prendere il treno, nelle cuffie i Sistem of a down o la Donà? No, oggi meglio i Kings of convenience.
08:02: Salgo l’ultimo gradino, lotto tra la calca del treno espresso proveniente da Torino Porta Nuova e diretto a Lecce; con i miei bagagli quotidiani fatico a trovare posto. Oh, finalmente ci siamo, un po’ di riposo!
8:35: Fermata a Monopoli, c’è Andrea, c’è Silvia. Ci incamminiamo verso l’ufficio.
09:00-18:00: Il tempo scorre, lento o come un fulmine, tra rabbia, questioni varie, telefonate improbabili, difficoltà con gli inserzionisti e i colleghi, appuntamenti, riunioni. Ma per fortuna non mancano confidenze, risate e la tisana delle 17:00.
18:15: Ancora sul treno. Leggo? Scrivo? No, adesso parlo con chi viaggia con me.
!8:50: Sono a Bari. Corri, la spesa!
20:00: Arrivo a casa, metto tutto al suo posto, in ordine, preparo la cena… Ma quanti siamo, 2, 4 o 10? Ok, tutto il palazzo si riunisce, mi serve un rinforzo. E’ ora di pensare al pranzo per domani.
23:00/24:00: Rimetto la sveglia. Domani si ricomincia.